“Essere privati di fare la propria arte è come essere privati della vita stessa”. Basta questa sentenza annunciata con serietà dal presidente di giuria Darren Aronofsky a far capire a chiunque che l’Orso d’oro della 65ma Berlinale sarebbe andato all’iraniano Jafar Panahi. Regista che ormai il mondo intero sa essere recluso in madrepatria dal 2010 (a seguito dell’arresto) con il divieto non solo di viaggiare ma soprattutto di esprimersi in “opere d’ingegno artistico ed intellettuale” per 20 anni. In altre parole, di fare il suo cinema. Questo non gli ha impedito di regalarci un’opera assai bella, Taxi, girata interamente da una vettura di cui si improvvisa autista e attraverso la quale osserva la sua città, la sua gente, con sguardi di intenso metacinema (arriva fino a tre livelli di punti di vista), con la delega ai passeggeri di far capire l’atrocità di cui sono vittime lui e altri artisti iraniani, “contrari” alle regole imposte dal fondamentalismo islamico che detiene il potere in Iran. Naturalmente assente il regista, la delega al ritiro del premio è stata data alla nipotina Hana Panahi, che pure compare nel film. Salita sul palco la bambina è scoppiata in lacrime alzando l’Orso d’oro per lo zio: un’immagine commovente che nessuno dei presenti e di chi ha assistito alla premiazione in streaming da tutto il mondo facilmente dimenticherà.
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