Il prefetto dei cento giorni…

carlo_alberto_dalla_chiesa_1Palermo, Venerdì 3 settembre 1982, ore 21 il nuovo prefetto di Palermo, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, sta andando a cena con la giovane moglie Emanuela Setti Carraro, di scorta li segue un’Alfetta guidata dall’agente Domenico Russo. Giunti in Via Isidoro Carini sopraggiungono due motociclette e un’auto che affiancandosi all’A112 del generale aprono il fuoco a colpi di kalashnikov uccidendoli sul colpo.

Sul luogo dell’eccidio, un anonimo cittadino lascia un cartello affisso al muro. Poche parole che in breve fanno il giro del mondo: “Qui è morta la speranza dei siciliani onesti”.

Pochi giorni dopo, il 5 settembre, durante i funerali il cardinale di Palermo Pappalardo rompe il silenzio della Chiesa ufficiale sul problema mafia. Ha parole durissime, citando un famoso passo di Tito Livio: “Dum Romae consulitur… Saguntum espugnatur. Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata – tuona dal pulpito – E questa volta non è Sagunto, ma Palermo! Povera Palermo nostra”. E al termine della messa, volano insulti e monetine all’indirizzo dei rappresentanti dello Stato e dei politici presenti: la reazione spontanea di tanta gente stanca, che in quel prefetto aveva riposto le proprie speranze.

Andreotti che era stato Presidente del Consiglio negli anni del terrorismo dal ’76 al ’79, periodo di massima operatività del Generale, non andò al funerale. Quando il giornalista Gianpaolo Pansa durante un Festival dell’Amicizia gli chiese perché lui non fosse andato ai funerali del prefetto di Palermo, il leader democristiano rispose così: ‘Preferisco andare ai battesimi’.

Il prefetto dei cento giorni; Dalla Chiesa a Palermo

Dalla Chiesa arriva a Palermo il 30 aprile, con procedura d’urgenza e anzitempo, poche ore dopo l’uccisione del segretario siciliano del Pci, Pio La Torre, terzo uomo politico assassinato tra il ’79 e l’82 dopo Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980), democristiano, presidente della Regione siciliana, e Michele Reina (9 marzo 1979), segretario della Dc palermitana. Dalla Chiesa è l’uomo a cui lo Stato si era rivolto per sconfiggere la nuova emergenza del paese: la mafia. In Sicilia è una vera e propria strage: 10 morti nell’80, 50 nell’81, quasi 20 nei primi mesi dell’82. Dalla Chiesa resterà per tutti il “prefetto dei cento giorni”.

La nomina era stata decisa il 2 aprile 1982 da un comitato interministeriale costituito dal presidente del Consiglio Spadolini e dai ministri Rognoni, Formica, Di Giesi e Altissimo.

Il 10 agosto, in un’intervista a Giorgio Bocca, Dalla Chiesa denuncia il suo isolamento e la mancata attribuzione dei poteri: “Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché è isolato”, dichiara al giornalista milanese.

Roma un poco si muove: l’articolo 416 bis del Codice Penale

Il 19 settembre 1982 la successiva reazione di sdegno da parte dell’opinione pubblica, portò lo Stato nel giro di pochi giorni ad approvare  l’art. 416 bis del Codice Penale, che riconosceva la fattispecie dell’associazione mafiosa accanto all’associazione a delinquere. Questa era stata l’ultima proposta, firmata da Pio La Torre insieme al democristiano Virginio Rognoni, riguardava il riconoscimento del delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso.

La legge 646 del 13 settembre 1982 (conosciuta anche come legge la legge Rognoni-La Torre) , oltre a istituire l’articolo 416-bis del codice penale prevede anche il sequestro e la confisca dei patrimoni illeciti provenienti da estorsioni, usura, riciclaggio, droga, prostituzione, e introduce norme per il controllo sugli appalti pubblici e l’obbligo della certificazione antimafia.

L’Associazione a delinquere di tipo mafioso è ora una una fattispecie di reato prevista dal Codice Penale italiano, all’art. 416 bis, e quindi all’interno del V Titolo della Seconda Parte del codice stesso, ossia nella parte disciplinante i Delitti contro l’ordine pubblico.

Fino al 1982 per i delitti di mafia si faceva ricorso all’art. 416 (associazione a delinquere), ma tale fattispecie era ben presto risultata inefficace di fronte alla vastità e alle dimensioni del fenomeno mafia. Tra le finalità perseguite dai soggetti uniti dal vincolo associativo ve ne erano anche di lecite, e ciò costituì il più grande limite all’applicazione dell’art. 416.

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